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Tre giorni fra i templi di Angkor

Angkor Wat al tramonto

Un giorno, addentrandosi nella foresta, dove si faceva compagnia cantando tra sé e sé la Traviata, come racconta nelle sue lettere, Mouhot d’un tratto, in mezzo al fogliame fitto, sotto gli alberi giganteschi, si sentì guardato da due, quattro, dieci, cento occhi di pietra che gli sorridevano. Ho sempre cercato di immaginarmi che cosa avesse provato in quel momento; un momento per il quale era valso il suo viaggio, e la sua morte.

Tiziano Terzani, Un indovino mi disse

Volevo raccontare il cibo cambogiano (e lo farò), ma scorrere le foto dei templi di Angkor mi ha fatto cambiare idea. Quelle pietre parlanti hanno scompigliato le carte in tavola, mi sono rimaste così impresse, in quel gioco di rosa e verde scolpito dal tempo, che mi ritrovo invece a scrivere la mia esperienza nel sito archeologico. Anche se in certi momenti mi sono maledetta per avere deciso di visitare la Cambogia in soli sei giorni — di cui uno passato a navigare e uno in minivan per fare qualcosa tipo 400 chilometri — davanti allo spettacolo dei templi strappati alla giungla di Siem Reap non c’è stato un momento in cui io mi sia pentita della scelta. Ne valeva la pena eccome, perché, pur dovendo sgomitare tra i turisti e con le orecchie assordate dai clacson dei tuk-tuk, questi templi hanno una magia e un’imponenza che mai ho visto nella mia vita. Richiederebbero silenzio, un ospite sconosciuto da queste parti, per come lottano contro i secoli, semplicemente resistendo. Sembrano la porta di passaggio per entrare in un’altra dimensione, tra terreno e ultraterreno, fra presente e passato. Queste, insomma, le sensazioni generali, ma ecco come, nella pratica, abbiamo organizzato la visita.

I circuiti di visita

Il biglietto valido per tre giorni costa 40 dollari e consente l’accesso ai siti dall’alba al tramonto (circa le sei). In questo modo si possono visitare i templi in diversi momenti della giornata e coglierne le diverse sfumature di luce. E, più prosaicamente, si evita di stramazzare dal caldo sulle pietre dosando l’esplorazione dei monumenti. Dopo averci molto pensato, non abbiamo noleggiato la bici, ma abbiamo concordato il prezzo di 18 dollari per il primo giorno con Mister Rothmony, il driver di tuk-tuk suggerito dalla nostra guesthouse. Ho trovato il prezzo onesto, visto che si è rivelato gentile, affidabile e nelle scorribande fra le rovine ci teneva l’acqua in fresco in un piccolo frigorifero. Non siamo diventati fighetti, ma il caldo è davvero un inseparabile compagno di viaggio. Tornando a Rothmony, come molti guidatori di tuk-tuk è un personaggio interessante: fino a pochi anni fa si occupava di sminare le zone contaminate. Insomma, la sua nuova vita in compenso è una passeggiata. Da Siem Reap alla zona dei templi servono almeno venti minuti, un po’ di più se si è diretti al Grande circuito. A proposito dei circuiti. Noi ci siamo affidati alla guida Polaris specificatamente dedicata ad Angkor e alla Rough Guide (una new entry nella nostra libreria). Ne è uscita una buona sintesi, fra i dettagli approfonditi forniti da Claudio Bussolino (con stupende foto di Edoardo Agresti) e la lettura più agile della seconda: incrociando le dritte abbiamo dedicato la prima giornata al Grande Circuito, seguendo un criterio più o meno cronologico. Quella che segue è una selezione di alcuni templi, alcuni per altro famosissimi, ma che mi sembrano imperdibili, soprattutto quando il caldo vi farà sragionare insinuando la tentazione di mollare tutto (anche in questo il venticello che rianima appena saliti dal tuk-tuk invoglia rispetto alla bici, io avviso).

Avevo preso un tuk-tuk composto da una motocicletta e una piccola carrozza a due ruote. Era un mezzo di trasporto lento, arioso e tranquillizzante. Ong, il guidatore, non sapeva molto di Angkor,
ma mi portò in giro tutto il giorno.
(Paul Theroux, Un treno fantasma verso la stella dell’Est)

Le danzatrici apsara, Angkor Wat

Le danzatrici apsara, Angkor Wat (foto di Persorsi, 2015)

Primo giorno

I templi del Grande circuito sono anche i più antichi (alcuni precedenti all’anno Mille), per questo è una buona idea vederli per primi e andare in crescendo nella visita. Il modello è molto simile in tutti: vari recinti di pietra più o meno integri custodiscono le cinque torri (quinconce) tipiche dell’arte khmer per rappresentare il monte Meru, dove vivono gli dei. Prima si attraversano i resti di biblioteche per poi notare le prime decorazioni con motivi indù o le nicchie con le immortali danzatrici apsara. Questo è più o meno lo schema tipico dei templi, che però varia sempre, a seconda dei gusti del nuovo sovrano di turno che se ne faceva costruire uno personale. Il primo incontro è con l’affascinante Pre Rup, su cui si può salire e godere della vista sulla giungla circostante. La distesa verde a perdita d’occhio, animata dal canto degli uccelli, attorno a questi enormi blocchi di pietra è uno degli aspetti più toccanti della visita. Mi è anche capitato di risentire quell’insetto già avvertito nella giungla laotiana che produce un fortissimo ronzio. E’ impressionante come risuona nelle orecchie.

Il Pre Rup ad Angkor

Il Pre Rup (foto di Persorsi, 2015)

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In questa prima visita è affascinante anche il Neak Pean  perché si raggiunge da una lunga passerella sull’acqua (nella stagione delle piogge) e dà l’idea di come in passato moltissimi templi fossero raggiungibili solo in barca. Una volta sul posto non si vede moltissimo, se non un cavallo e i serpenti naga che affiorano dal bacino, ma resta una tappa suggestiva (specie nella stagione umida, quando c’è molta acqua). Segnalo in questo primo giro anche il Preah Khan. Si arriva da un ponte animato da demoni e dei alle prese con la zangolatura dell’oceano di latte (un mito ricorrente). Sembra che giochino al tiro alla fune con il serpente Vasuki, ma in realtà stanno cercando di recuperare l’amrita sul fondo del mare che dona l’immortalità.
Superata la balaustra ci si immerge in un labirinto di pietra. Fuori dalle porte e dalle cornici di finestre sbilenche incombono massi crollati e ci si addentra in spazi angusti fra raggi di sole abbagliante e coni d’ombra in cui i possenti muri assumono toni muschiati e verdastri. Difficile pensare a questi luoghi enigmatici e decadenti come a centri di potere in quelle città antiche. Ma le rovine sono trasformazione e questi posti diventano libri aperti sulla storia dell’umanità.

 Secondo giorno

Siamo partiti alle 4.45 dalla Guest house per raggiungere Angkor Wat, punto di partenza del piccolo circuito (che poi di piccolo ha il giusto visto che i templi sono moltissimi, benché più ravvicinati. In tutto siamo stati fuori più di sette ore). L’arrivo all’aurora, per quanto gettonatissimo dai turisti, conserva la sua magia. Si accede alla vasta area del tempio mentre gli occhi si adattano al buio. Lo spettacolo delle torri che si svelano pian piano mentre spunta il sole (alle spalle del complesso, rassegnatevi al controluce) è emozione pura. Il pubblico da stadio appostato con reflex, selfie stick e Gopro alle spalle, può irritare, ma non intacca la bellezza del luogo. Il tempio all’esterno è maestoso e surreale, uno di quei luoghi che incutono rispetto e in cui è difficile credere che ce la giochiamo tutta qui sulla terra la nostra partita.

Angkor Wat all'arrivo all'alba

Angkor Wat all’arrivo all’alba (foto di Persorsi, 2015)

La visita all'alba non è per pochi intimi

La visita all’alba non è per pochi intimi (foto di Persorsi, 2015)

Tempio che vai, spirito che trovi. Eccoci al Bayon, famoso per gli occhi di pietra che osservano il visitatore da lontano. Il posto ribalta la prospettiva: non sei tu a guardare il monumento, ma è lui che guarda che te. I sorrisi dei Lokesvara sono un rebus, ma infondono pace (se non fosse per le orde di turisti, in certi orari possono far venire un attacco di bile, soprattutto quando iniziano a sfamare le scimmie che vagano fra i sassi. Ma siamo turisti anche noi, è la regola del gioco. Questo è il tempio più scenografico, soprattutto quando si sale sulla terrazza e ci si trova a tu per tu con quegli occhi che scrutano, ma non giudicano. L’irreale è sconfinato nel reale, siamo piccoli, rispetto all’enormità delle domande.

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Al Ta Prohm cambia ancora l’atmosfera. E’ un po’ banale, ma rende l’idea: è il luogo che più evoca avventure alla Indiana Jones, fra liane e templi indiani maledetti. In realtà l’unico rischio qui è di trovare i famigerati pullman di turisti (e qualche zanzara). Nonostante il recente restauro, il sito è inghiottito dalla vegetazione e rende ancora più selvaggia l’ambientazione. E’ uno dei pochi templi in cui il percorso è obbligato, ma questo consente di passare per tutti gli scorci più suggestivi. Qui a dominare sono gli enormi alberi, fra cui i ‘fichi strangolatori’, che hanno scalzato con le loro radici le pietre secolari. Le hanno avvinghiate, come vene, come tentacoli, come lunghe dita. In alcuni casi le ramificazioni fanno parte dell’architettura, spesso sono vere e proprie architravi. Come al solito, ad averla vinta è la natura.

Ta Prohm

Ta Prohm

Ta Prohm

Ta Prohm

Terzo giorno

Nel nostro caso è stato po’ il ripasso. Dopo l’alba, questa volta siamo tornati al tramonto per vedere i siti con un po’ meno gente. Soprattutto il Bayon si era rivelato quasi inavvicinabile alle 9 del mattino e una seconda visita era necessaria, anche per cogliere il gioco di luce restituita delle pietre. I muri si colorano di una tonalità più calda, fra il rosa e il dorato, rispetto ai toni grigiastri e verdi delle prime ore del giorno. Come in un film già visto, si possono osservare meglio i dettagli: insomma, avendo tempo consiglio davvero un secondo passaggio per apprezzare al meglio questi siti così vasti da stordire il visitatore. Bisogna rinfrescare gli occhi per godere al meglio di questo spettacolo. Che  una volta entrato negli occhi, resta lì e non credo ne uscirà più.

Nel Bayon

Nel Bayon

 

 

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