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Maternità, parte seconda

Le madri sono i paesi da cui veniamo.
(Il lavoro di una vita, Rachel Cusk)

So per esperienza che spesso una donna è pronta per avere un figlio e altrettanto spesso non è pronta.
(La vita degli animali, Audur Ava Olafsdottir)

Mi è successo qualcosa di forte quando sono diventata mamma (voglio dire, oltre a non dormire  per quattro mesi di fila), qualcosa che mi ha fatto apprezzare mia madre che è morta quando avevo 22 anni, facendomi sentire in connessione con lei.
(Mamma!
, Liz Climo)

“Sei pronta a incontrare l’uomo della tua vita?”. L’estetista me lo ha chiesto così, come se niente fosse, con la cera in mano, mentre cercava di rendermi il più presentabile possibile a dieci giorni dal parto. Perché fra le cose che nessuno ti racconta mai prima delle gravidanze è che in certe parti del tuo corpo alla fine non arrivi più e, anzi, proprio non le vedi più e vai in giro conciata chissà come. E dunque eccoci qui di nuovo, due anni dopo Mia è arrivato Orlando Martin. Nome bizzarro sì, ma è nato in un freddissimo dieci gennaio, così come mio nonno Nello, quasi un secolo fa. Suo padre si chiamava Martino e quel secondo nome chiudeva un cerchio irresistibile.

Foto di Alice Pietrantonio

Foto di Alice Pietrantonio

“Ti senti più completa ora che hai anche il maschio?”, ha rincarato la dose la stessa estetista quando ho rimesso piede sullo stesso lettino, questa volta per tornare presentabile dopo il parto. Di nuovo non ho saputo cosa rispondere e ho vigliaccamente temporeggiato con “non saprei”.
E così, una gravidanza dopo, ho ritrovato lo stesso quantitativo di luoghi comuni e narrazioni sulla maternità lontane anni luce dal mondo reale ed emotivo delle donne. E’ una delle poche cose che non sono cambiate – così come la mancata precedenza negli uffici postali e alla cassa del supermercato, dove l’umanità offre sempre il suo peggio –  fra le due esperienze, su cui provo ancora una volta a dire la mia. Forse il mondo non ne sentirà proprio il bisogno, anche perché di figli se ne fanno sempre meno pare, ma magari il racconto può essere un confronto utile a chi questo percorso lo sta (ri)vivendo. In giro si sentirà ancora ripetere frasi così. Perché il maschio, è sempre e ancora il maschio.

 

E pensare che io, cresciuta a pane e Piccole donne e sorelle Bennet, ero convinta di avere un’altra bimba in rampa di lancio. E un po’ ci speravo proprio, diciamolo. E poi con tutte quelle nausee, per forza, mi dicevano in tanti. Solo i test genetici, arrivati mentre cercavo la connessione internet in un campeggio del Gargano, mi hanno ancorata alla realtà: questa volta aspettavo un maschio. Ma come è possibile, continuavo a ripetere a Patrick, come se l’eventualità fosse così peregrina e non un banale 50 per cento. Ci ho messo nove mesi a capire che la mia aspettativa di avere una seconda figlia femmina era una poi di fatto una proiezione della mia vita – ho una sorella amatissima – e che avrebbe ricomposto il trittico perduto con mia madre, scomparsa così presto. E così, archiviati i nomi femminili che avevo già immaginato e restando indecisa fino alla sala parto su quelli maschili (da lì il doppio nome) nel frattempo è ricominciata l’avventura, che per certi versi si è rivelata più facile, per altri più difficile.
Dei tanti racconti ansiogeni che mi erano stati fatti, mi sento di confermare quelli sulla stanchezza. Mentre aspettavo Mia, per cui avevo smesso di lavorare prima, esistevano momenti di riposo, addirittura di solitudine. Questa volta ho lavorato fino alla fine del settimo mese e quando non ero in redazione, ero costantemente con mia figlia a recuperare tempo perduto. Andrebbe aggiunto che la piccola nel frattempo ha iniziato il nido e con quest’ultimo il sabotaggio del mio tempo libero con febbri e raffreddori continui, ma un tema più universale è sicuramente quello della pandemia. Questa è storia recente di tante: ecografie in solitaria, slalom fra i triage in ospedale, degenze praticamente senza padri. Per non parlare degli annunci della lieta notizia: lo sfilacciamento di tanti rapporti di questi mesi ha fatto sì che io abbia rivelato che ero incinta molto avanti, con ben meno poesia. E ancora. Verso Natale ho dovuto archiviare le attività in luoghi chiusi, con la paura di diventare positiva. Il picco è stato in gennaio, quando io dovevo andare a partorire e non potevo permettermi di avere l’altra bimba contagiata. Se no, poi, a chi la lasciavo quando andavo in ospedale?

 

La nevicata dietro casa prima che nascesse Orlando

La nevicata dietro casa prima che nascesse Orlando

Ecco, onestamente, questo senso pratico continuo ha a volte prevalso sulla gioia di aspettare. Così come l’incastro perfetto lavoro-nido-babysitter-nonni. Se  questa seconda gravidanza l’ho vissuta con meno ansia e paure irrazionali (che poi, irrazionali: quella di far crescere qualcuno dentro di sé non mi pare poi una responsabilità da poco. Avete delle ansie? Amen, non crocifiggetevi), qualcosa si è perso di quel senso di meraviglia che aveva tanto caratterizzato la precedente. Solo la sera, dopo avere messo a letto Mia, mi sedevo sulla poltrona ascoltando calci e piroette, rendendomi di fatto conto che lì dentro c’era davvero un altro bambino che sembrava darsi un gran da fare per farsi notare (il destino dei secondogeniti?), ritrovando quello stato di grazia che ricordavo e che avevo sperato di poter vivere di nuovo. Sono stata molto fortunata, questo è certo. E ho anche capito che con la maternità ti piove addosso spesso un senso di inadeguatezza, ma anche una forza praticamente inesauribile.

Questo è stato il prima.

Poi è arrivato Orlando Martin, dopo l’unica nevicata di questo inverno che a tutti è sembrato lunghissimo. Ed è ricominciato il tempo della cura e della tenerezza.

Orlando in maternità

Orlando in maternità

Il tempo della cura

Ricomincia sempre così, con notti passate a vagare in un reparto inondato di pianti, con luci tremende, popolato da donne stanche, con l’andatura accartocciata per i punti, alla ricerca di una ostetrica. Non ce la farò mai, pensi la prima volta. Nella seconda, per fortuna, lo sai che ce la farai, che in qualche modo provvederai a quella creaturina che sembra di vetro e che ti rimetterai in piedi. E, anche se non te lo raccontano mai ai corsi quanto può essere difficile allattare, sai anche che spesso ti sentirari un’incapace, ma con un po’ di costanza ce la farai. E che se non ce la farai, non succede niente. Che se il legame non si crea all’istante, tipo freccia di Cupido, non c’è nulla di strano. E allora puoi iniziare a goderti lo spettacolo, di questa vita che cresce, che impara continuamente sotto i tuoi occhi. Che cade, si rialza, si entusiasma per tutto, piange per tutto. Che ti fa perdere la pazienza così tanto. Che ti ama così tanto. Mia e Orlando sono il mio più film più bello, la trama del libro che ho sempre voglia di leggere. Regali di Natale da scartare tutti i giorni.

La copertina del libro Mamma! di Liz Climo

La copertina del libro Mamma! di Liz Climo

E’ una fatica pazzesca essere genitori, così come è una gioia pazzesca. La vivo quotidianamente come un previlegio, una fortuna enorme, ma sento crescere anche continue, nuove, paure. Quella che mi succeda qualcosa, che succeda loro qualcosa. O, per sdrammatizzare, come dicono nella serie Love Life: “Ecco, ora puoi ufficialmente rovinare la vita di qualcuno”.  Perdo continuamente pezzi di vecchia me, ma spesso mi sento più me stessa. Quando si ammalano trascorro giornate fatte solo di pannolini-termometro-aerosol-pediatra e guardare una puntata di Downton Abbey è l’aspettativa massima giornaliera. A volte verso le 19 mi trasformo in una creatura urlante, uscita da un film di Muccino. Però sono costantemente innamorata. Essere mamme è, prendendo le parole in prestito da Rachel Cusk, Il lavoro di una vita. Aggiungerei, tanti lavori insieme. Siamo chiamate a essere custodi, giocoliere, piccole chimiche dosando antibiotici, un po’ infermiere e un po’ pedagogiste. Figlie a nostra volta, compagne. Dobbiamo essere concorrenti di Masterchef costantemente al pressure test, donne di casa, equilibriste (in bagni perennemente senza fasciatoio, ve possino), nutrizioniste, cantastorie, tassiste, insegnanti, segretarie con agende stampate in testa. Non ce l’ha fatto fare nessuno, ma credo che facciamo un lavoro importante, che c’entra con la speranza e con il futuro.

Eppure è obbligatorio che facciamo tutto questo per soli tre mesi, dopo di che dovremmo tornare al lavoro vero e proprio non appena abbiamo messo insieme una manciata di ore di sonno, per poi girare mezzo stipendio alla babysitter e morire dentro dal senso di colpa, delegando ad altri persino le prime pappe. E allora bene, benissimo, sdoganare il cognome della madre, declinare ogni parola al femminile, ma l’impressione è che si giri sempre attorno ai temi cruciali. Avrei una lunga lista. Si potrebbe iniziare a ragionare su una maggiore flessibilità oraria al rientro sul proprio posto di lavoro (soprattutto garantire che ci sia ancora). E’ sacrosanto che non siano più le donne a occuparsi in maniera esclusiva dei figli, ma non si può neanche chiedere loro il contrario. L’elasticità degli orari dovrebbe valere anche per i nidi e le scuole per l’infanzia (con quel che costano): l’altro giorno, alla riunione dei genitori del polo, una mamma ha chiesto se il servizio aggiuntivo estivo poteva continuare anche ad agosto. Ad agosto. Mi chiedo chi pensi ancor che ancora le donne abbiano ferie, turni e orari di lavoro come quelli delle nostre madri. La lunga estate di villeggiatura al mare e in Appennino – e in casa mia non eravamo certo dei riccastri – è un mondo incantato che non esiste (quasi) più.
Una paternità obbligatoria di dieci giorni fa ridere. Che ne facciano richiesta meno della metà degli uomini fa piangere. Se proprio non spuntano idee più creative, allora si potrebbero dare due lire in più alle famiglie, visto quanto poi si grida allo scandalo davanti al calo della natalità, anche senza che ce lo dica Elon Musk (come poi faccia a conciliare il tema con la quasi totale marcia indetro sullo smart working sarebbe da approfondire).

Io e Mia

Io e Mia

Due anni fa, poco prima di partorire, scrivevo che alle donne incinte servivano compagni presenti e parenti intelligenti. Ne sono ancora convinta. E aggiungo: servono psicologhe già dall’ospedale. Solo di recente ho scoperto quante donne finiscono in terapia per superare il trauma del primo parto. Ed è vero che allora la mia bisnonna ne aveva fatti 11 di figli e nel frattempo lavorava pure nei campi, ma non credo che gli effetti siano stati sempre eccezionali per la generazione delle nostre nonne e madri. Servono ostetriche a casa, obbligatorie. E tante pacche sulle spalle. E schiene allenate, sul serio. L’altro giorno il pediatra mi ha cazziata perché sono arrivata con dieci minuti di ritardo. Era vero, ma stavo correndo su e giù per la tangenziale dopo essere stata dalla fisioterapista. Volevo rispondere: ci provi lei, con bambini malati che non fanno tre anni in due. E invece mi sono inventata la più classica delle scuse: che ero rimasta a piedi con l’auto.

Siate gentili con le mamme. Fanno tanti lavori tutti i giorni, persino sotto le bombe, come putroppo vediamo da mesi. Non chiedeteci se ci sentiamo complete con figli maschi, femmine o quando i figli non sono proprio arrivati. Perché chi lo sa mai, in fondo, quando si è pronti per questa risposta.

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